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lunedì 20 febbraio 2012

Piovosità*




Oggi che piove, è il momento giusto.
E' il momento migliore per un epitaffio - oggi che il clima corrisponde al mio mood meditativo e riflessivo. Oggi che Vitaminic pubblica la sua fine inevitabile. Oggi che si conclude una parte della mia vita.
Di parole se ne dicono tante, e tutte piene di ricordi meravigliosi. Sembra un mondo bello, quello che è stato condiviso a Vitaminic. E lo era. Ma non mi voglio soffermare su alcuni ricordi piuttosto che altri, perché c'è chi sa farlo meglio di me. A me spetta la lirica, il sogno e il ricordo.
A parlare dei rapporti fra le persone (rapporti digitali, ma non per questo meno reali), vien spontanea la parola "famiglia", anche se non è per niente la parola giusta. Non era una famiglia. Era un insieme di menti creative volte allo stesso scopo. Ci si conosce anche solo attraverso le parole. Parole che, dopotutto, vedi impresse sul tuo schermo. Ed in questa sinestesia di esperienze - vista, ascolto, tatto - ho vissuto imparando, facendo, ascoltando, sperando, collaborando…
Ho imparato tanto, nel mio fantastico angolino. Ho dato sfogo a tutta la mia creatività guardando a fuori, al mondo - dal mio angolino. Ho vissuto una bellissima esperienza, ed è ora di uscire dal mio angolino.
Grazie, però, per tutto quello che è stato.
Farewell, Vita/me/nic. Ti storpio perché ti ho tanto amato.



* titolo di marnie

domenica 27 giugno 2010

The Twilight Saga: Eclipse OST (aka: dove vanno a finire le nostre saghe)



E’ arrivata la nuova colonna sonora del terzo film targato Twilight. Mi sono chiesta se fosse una pessima idea parlarne ancora, eppure la vecchia storia dei vampiri buoni e dei licantropi gentlemen tira eccome. E visto che già era riuscita a solleticarci con New Moon sul magico mondo delle OST che cadono a fagiolo sul nostro pane quotidiano, non possiamo perderci quest’ultimo passaggio e approfittarne per scovare il minimo comun denominatore degli anni Zero.

2004: con The O.C. (dal Mix1 al Mix6), nasce l’indie per ricchi. Seth Coen è ebreo, sfigato, nerdissimo, fumettissimo, eppure così figo, e ascolta tutto quello che in questo momento dei nuovi anni Zero consideriamo il vero hype.
2006: Marie Antoinette non è un prodotto di largo consumo come gli esimi colleghi, ma la OST è stupefacente. Siouxsie and the Banshees, New Order, The Cure, e The Strokes, Aphex Twin, Air accanto a Vivaldi e compagnia classica: non c’entra una mazza con l’ambientazione del film ed è una grandissima idea.
2007: Gossip Girl mette in scena con nonchalanche cosa è “in” e alla moda. Tutto è moda. Non c’è neanche bisogno di dirlo. Non c’è bisogno di una soundtrack ufficiale, anche se esiste. Gli aggiornamenti saltano fuori assieme alla puntata settimanale, i riferimenti impliciti passano da tastiera a schermo cellulare. E’ il nuovo mondo che ormai ha acquistato un metodo. E se sei teenager e hai bisogno di distinguerti, Phoenix, Vampire Weekend, Crystal Castles e perdincibacco, anche i Sonic Youth sono il tuo pane quotidiano. Insieme alle scarpe disposte in ordine alfabetico per stilista.
Cambio di rotta del 2009 per New Moon. E’ diverso da Twilight: le band adolescenziali finto-rock tipo Paramore, Green Day, Linkin Park non tirano più. Bisogna sorprendere e forse anche risparmiare. Il risultato è un gioiellino che tira le somme alla fine del decennio. E ci sta tutto.
2010. Alice in Wonderland è solo l’inizio di un anno di conferme. Due OST, una noiosa raccolta di strumentali e un confanetto che cerca la sua strada fra il vecchio mainstream (Avril Lavigne, Blink 182, Tokio Hotel, Plain White T’s, Metro Station) e il nuovo vintage (Robert Smith, Wolfmother, Franz Ferdinand). Non si sa cosa scegliere, ma le si prova tutte. Tanto c’è Avril.

E per finire, la nostra The Twilight Saga: Eclipse. Cominciando dai Muse, che piacciono tanto alla spumeggiante Stephanie Meyer: nel primo volume sono stati una labile presenza, poi hanno fatto un remix, e infine sfornato un inedito in stile Queen. Il resto è come un almanacco della stagione 2009/2010: Florence and the Machine, Dead Weather, Vampire Weekend, Black Keys con le loro uscite fresche-fresche. E poi quelli che non erano stati ammessi al girone precedente: Bat For Lashes, Fanfarlo, Sia, The Bravery, Metric. I Band Of Horses si riconfermano, UNKLE e Cee Lo Green ritornano in auge, Howard Shore ci riprova dopo Il signore degli anelli e tutte le sue molte altre cose.
Non sarà certo il punto di arrivo, né un passo seminale. Ma la sua presenza al terzo stadio di un fenomeno mediatico rilevante non fa che stuzzicare la voglia di cercare una strada di senso fra le colonne sonore degli anni Zero. Viviamo, in fondo, gli anni della citazione e del frammento; ogni anno la moda cambia, ogni prodotto culturale rimanda a un altro, intriso di link e navigazioni [ho messo un link] sulla superficie del contenuto. La musica diventa un veicolo a quattro ruote su cui caricare i pacchi che si vuole e trasportarli da qualche altra parte. Grey’s Anatomy usa titoli di canzoni per nominare le puntate; C.S.I.: NY gioca con Nelly Furtado, i Coldplay e le suonerie truetone con una consapevolezza che va ben oltre l’uso di canzoncine da sottofondo; Cold Case ricerca scientificamente canzoni storiche per ambientare al meglio gli episodi. Sono tutte serie tv, direte voi. Bene. Ma non ditemi che Twilight è un film, non vi crederò.


Pubblicato qui.

mercoledì 27 maggio 2009

Sapone vero



Prendi un giorno in cui faresti mille cose. Prendi il momento in cui hai un sacco di fantasia. Anja Plaschg, austriaca, scivola come sapone sulla pelle. Leggera ed eterea, dolce e insinuante, morbosa e fluttuante. La vedi su una webzine straniera che si esibisce alla tastiera, quel suono fatto di tasti ed elettricità: sussurra dolce e poi grida e poi ti strazia; e tu ti chiedi se capirai mai il suo essere così facile e inebriante allo stesso tempo. Suona il pianoforte con la stessa energia di Regina Spektor, ma è più oscura. È una Cat Power meno spigolosa. Sa fare voli pindarici e sognanti come le Amiina, ma non sale mai troppo alle nuvole. E’ industriale e spietata in DDMMYYYY, con le sue elettroniche asimmetriche e cupe. Piacerebbe ai fans degli Evanescence, ma volentieri darebbe loro la merda. Non mi piace fare considerazioni anagrafiche, ma leggere che Anja ha solo 19 anni abbina molti interrogativi su cosa significhi essere geni al giorno d’oggi. Se penso che in terra teutonica “pianoforte goth” vuol dire LaFee, mi stupisco che esista ancora chi sa trovare molto, molto di più da trasformare in note. Prendo una frase a caso: “So viel Pathos muss sein”, così tanto pathos è indispensabile. Mi piace travalicare i generi e chi è ancora capace di stupire. Chi non è classificabile.


Da Intro Magazine:

Perchè la sofferenza degli altri esseri umani è così bella da osservare? Lo sanno di sicuro Gala e Bild [riviste patinate tedesche]. Soap & Skin invece ce lo spiega in maniera diversa. Si dà alla sua arte e al suo pubblico senza esitazione - conserva però un impenetrabile mistero. Arno Raffeiner ha ascoltato il suo meditato silenzio a proposito del primo album.
Un paesino di mucche del 19esimo secolo. Un genio diventato adulto molto presto si perde nella solitudine, nella follia, nell’attrazione per la morte. Come unica possibilità di fuga rimane la musica: il forte richiamo e la potenza del tuono di centinaia di canne da organo. Questo genio, come racconta un libro venduto in milioni di copie alla fine del 20esimo secolo, “Le Voci del Mondo” (”Schlafes Bruder”***), si deve proprio chiamare Anja Plaschg.
Con l’unica differenza che la Plaschg non siede davanti all’organo di un’oscura chiesa, bensì alla tastiera nella sua cameretta, per diventare Soap & Skin, trovarsi nella posizione di scomparire dal mondo e diventare un’unica cosa col suo subconscio.
Timore, commozione, fascinazione, tutte conchiuse in uno sguardo profondo nei reconditi anditi dell’anima di un’artista tragica: rare volte è successo che l’era del Romanticismo sia stata trasposta nell’Oggi Digitale come nel caso di Soap & Skin.
La sua storia non è unica. E’ il vecchio caso del Wunderkind [bambino prodigio], che negli ultimi anni è stato applicato in molti, troppi casi. Nata nel 1990 a Steiermark, gioventù passata in un piccolo paese vicino ala fattoria dei genitori, lezioni di musica dai 7 anni, pratica al pianoforte come una fanatica fin da quando aveva 13 anni e le prime composizioni a 14, poi ha smesso con la scuola e a 16 si è cimentata con l’Accademia di Belle Arti di Vienna. In due anni e mezzo è uscito il suo primo pezzo per la Shitkatapult, che ha provocato lo sbalordimento di molta stampa - dai giornali locali passando per le riviste musicali fino alla più rinomata stampa quotidiana, tutti hanno concordato della grande novità. Così giovane, così talentuosa, così disperata!
Oggi Anja Plaschg è ancora 19enne e pubblica il suo primo, atteso album. Ne scriviamo senza clichèe (la diva tragica), senza dubbi (di essere voyeuristi, ma tentando di guardare comunque) e soprattutto senza troppo pathos. Parlare con lei del suo album non è per niente facile. La sua voce è spesso vicina all’assenza - se proprio dice qualcosa. L’atteggiamento che vaga tra il silenzio basito che si avverte dopo un’intervista con lei, e parole invece mostruose che cadono dalla sua bocca come se niente fosse, è un po’ unidirezionale. E’ come nella sua musica: più si riduce, più è intenso.

www.intro.de



*** “Schlafes Bruder” è un romanzo del 1992 dello scrittore austriaco Robert Schneider. La storia di Elias, un “freak” geniale che suona l’organo in maniera divina e che nell’oscura regione delle Alpi cattoliche del 19esimo secolo viene spinto al suicidio attraverso la privazione del sonno, è diventato un bestseller internazionale.

Cara Jane Eyre...


C’è qualcosa che i Dear Reader non mettono fra le loro influenze artistiche. Oltre a Imogen Heap e Laura Veirs, aggiungerei un pizzichino di Joan Osborne, Sixpence None The Richer e, insomma, cantautrici che sanno tanto affascinare. Se non le conoscessero abbastanza, gliele consiglio. Già, perchè i due Dear Reader si sentono molto fuori dal mondo.
Vengono da Johannesburg, Sud Africa, dove la natura è tanto bella ma astiosa, posto dove le cose le imparano da internet, confrontandosi con ciò che si scopre al momento. Non si erano neanche accorti che il vecchio nome della band, Harris Tweed, poteva andare incontro alle ire del marchio scozzese. Così hanno scelto un bel riferimento alla Jane Eyre di Charlotte Brönte, quella che si affacciava dal libro con un buon ”caro lettore, ora ti racconto la mia storia”. E noi ascoltiamo con molto interesse.
Le suggestioni sono tante, mai scontate. Dearheart è una melodia delicata, una voce che sale vellutata, un piano protagonista. E’ tutto soffuso di simpatica follia, ironia, rinascita dopo l’amore. Oppure si scivola fra note quasi oscure o pompose, lamentando “I’m alone, I’m alone” (e ammettiamolo, a volte una semplice frase soggetto-verbo-aggettivo basta a riempire il cosmo delle proprie sensazioni. Sì, è proprio quello che ci vuole). Le frasi musicali non sanno fermarsi al solito giro e quindi variano ed evolvono e non si fermano. E’ una bella sorpresa, questo duo. E’ un racconto avvincente ed è una buona lettura. Proprio come se Charlotte Brönte, con tutte le sue sorelle, ci richiamasse - in musica - dalle pagine del libro. Varrebbe la pena gustarsi le prossime date in Italia, a supporto di un ospite d’eccezione. Et voilà!

Dear Reader in Italia con
Get Well Soon:
28 aprile 2009 - Controcanto Festival - Ancona
29 aprile 2009 - Circolo degli Artisti - Roma
30 aprile 2009 - Covo - Bologna
1 maggio 2009 - La Limonaia - Fucecchio (FI)

Sogna!



Non vi siete ancora innamorati di Patti Smith ?

Non vivete dei suoi dischi, chessò, Horses, Easter, Wave? No? Ne sono sicura, ben presto di lei vi innamorerete. A Patti Smith basta una frase, un tono, un accenno, a dimostrare la singola bellezza di un attimo, basta quella sua passione capace di incendiarsi infinitamente. Magari stai pensando a quella scenetta strana che hai visto passeggiando per i fatti tuoi e che ti ha lasciato un sorriso sulla bocca senza che tu non sappia perchè: ecco, lei è capace di fartelo capire, il perchè. E’ un essere straordinario che vale la pena incontrare almeno una volta nella vita.

Per questo, forse, invidiamo Steven Sebring, amico che l’ha seguita per 10 anni a partire dalla morte del marito, Fred “Sonic” Smith, nel 1994. Però lo ammiriamo anche, perchè con tanta poca retorica analizza quegli oggetti, i piccoli cenni, le frasi perfette della vita quotidiana di Patti. E’ come infilarsi subdoli nella casa e nel letto di qualcun’altro. O nel backstage. O come origliare discorsi a cui no, le nostre orecchie vogliose non dovrebbero essere introdotte. Come non ammirarla per quel suo essere così cristallina e aperta: Steven e noi siamo suoi amici, suoi complici, siamo uniti in un unico occhio. Poi può succedere che non sia il momento opportuno e la camera venga fermata. Questa è Patti Smith, una donna che sa vivere le proprie emozioni senza perderle in un flusso senza senso.

Ci porta attraverso la New York degli artisti beat come Burroughs e Ginsberg, suoi cari amici, attraverso il passato e i ricordi di chi c’è (Michael Stipe, Flea, Sam Shepard, Kevin Shields) e chi non c’è più (i genitori, il fratello Tod, l’amico di sempre Robert Mapplethorpe), attraverso le difficoltà del ritorno alla scena pubblica dopo 15 anni. E poi attraverso un meraviglioso spirito attivista. Vi viene per caso il dubbio che le sue parole, la sua musica, si siano fermate anni fa? No, ascoltate attentamente: è la voce di oggi, di un’America che non vuole essere rappresentata da un qualsiasi telegiornale in prima serata, che urla “Noi avevamo dei sogni. E abbiamo creato George Bush, cazzo!”.

Patti Smith vive nei cuori e coi cuori della gente. Patti Smith vive per l’arte e il bello che c’è in ognuno di noi. Lo vede, come ha visto i bambini di Milano che si vestivano per Carnevale, quando è venuta a presentare il film. E tutto ciò è talmente bello e allo stesso tempo importante, che guardare e riguardare Dream of Life è solo un continuo tuffo in ciò che vorremmo essere almeno una volta nella vita.

domenica 5 aprile 2009

Disoccupazione Punk


Il punk è morto, si è detto e ridetto. E in molti casi non ho saputo dissentire. D’altra parte lo slogan (così vero, così sincero) era “No future” e probabilmente lo aveva pensato uno di quei giovani delusi, lì in coda per il sussidio di disoccupazione. Ecco. Sussidio a parte, la storia si ripete in un modo dannatamente ciclico. Quell’esclamazione poteva essere l’equivalente del nostro “C’è crisi”, e ‘unica differenza sta nel fatto che oggi il punk è più un genere che non una filosofia di vita - la quale si è incarnata forse più efficacemente nei Winehouse o Doherty di ogni tipo. Ecco, di nuovo. Accostate questi due micro esempi alle Civet: queste quattro ragazze californiane hanno cominciato, 4 album fa, ad urlare e fare casino, decidendo che ci stava bene, coi loro vestitini aderenti e i capelli colorati. Io non posso smettere di guardarle. Quasi vorrei essere così. Sì. E poi quando si mettono ad urlare “You son of a bitch!” conturbano e trasportano. Uno o due accordi, voce incazzata, batteria martellante e giri risentiti: il mix c’è tutto. Più che “No future” sembra si abbia bisogno di credersi immortali bevendosi una birra dopo l’altra. E io che sono giovane, mi credo già vecchia. Trapassata ben presto alla disoccupazione, senza neanche una Civet a sapermi consolare.

mercoledì 4 febbraio 2009

Finire il nostro ascolto



Mivengono in mente il vinile e la cassetta. Quando non si poteva andare avanti o indietro se non con immensa fatica. Mi viene in mente la libreria virtuale sul mio computer, dove una canzone è un mucchietto di byte facilmente trasferibile ai miei migliori amici. E se cerco il modo di collegare questi due pensieri, trovo lì pronto questo disco di Duncan Lloyd. Non me ne ero dimenticata, visto che è uscito nel 2008. Ma ad oggi mi risulta sempre più inascoltabile. Non nel senso musicale, ma "fruivitivo". 100 TRACCE! 10 tracce a canzone. 15 secondi per traccia. Non so se rendo l'idea. Il mio lettore cd salta ogni 15 secondi.
E' a questo che ci ha portato il mondo digitale? Per paura di copie biricchine si scovano tali escamotage? Siamo proprio messi male. Va bene, facciamo questo sforzo. Prima tracci(n)a, primo riff di chitarra. Mi sembra tutto uguale, ma forse è perchè ogni 15 secondi questo riff si ripete, secondo variazioni, canzone per canzone. Duncan Lloyd ha trovato qualcosa che sapeva fare bene e gli piaceva, e l'ha ripetuto a manetta fino all'ultima nota.Il buon chitarrista Maxïmo Park (unico motivo per comprarlo, secondo il bollino rosso appiccicato sopra) si cimenta in un genere diverso dalla sua solita band, infischiandosene di quella bella Our Velocity o di tirare avanti la carretta che non sta più producendo meraviglie come all'inizio. Cambia faccia e si butta su un genere molto più '70s, vintage, direi quasi canzonettistico. La chitarra, manco a farlo apposta, è la protagonista, è spigolosa e non ne vuole sapere di starsene da parte.
Ora vado ad ascoltare le tracce su YouTube: ecco dove è finito il nostro ascolto.

venerdì 16 gennaio 2009

Finire fuori dal bordo


Non è folk. Precisiamolo. Restiamo a ciò che suggerisce la copertina. Vediamo mostri colorati degli schizzi più cruenti su sfondo bianco come foglio di bambino dalle fantasie più crude. Non pensiamo a campi, strade americane al tramonto, a tradizioni canadesi. Anche se dalla Terra dell’Acero si muove, sa già che la sua stanzetta in cui registrava i primi nastri è troppo stretta. Quindi partendosene via coi suoi schizzi per copertine e video, il buon Chad tenta di svirgolare da tutto quello che ormai è pesantemente indie canadese. O folk americano. Inserisce dei pezzettini di elettronica, noise, impazzisce un pochettino (mica tanto), cambia il ritmo per darsi un tono. Però non è saggio cambiare la voce, l’atteggiamento lirico di fondo, e così ci si àncora a tutto quello che già c’è, buttiamo lì Flaming Lips e Arcade Fire ma l’elenco potrebbe essere molto più lungo, quasi infinito. Questa parte non ci interessa. Può essere un bel punto di partenza, l’inizio della riflessione, ma il momento cruciale si sviluppa più avanti sulle tracce più pazze e scatenate, perchè è lì nel passaggio che si coglie uno sbandamento capace di agitare e solleticare. E’ giusto sporcarsi. Contaminarsi. Forse c’è, in Canada, un foglio intonso e bello candido, ma il tratto dei pennarelli di un bambino che conosce il mondo finisce molto spesso fuori dai bordi.

giovedì 6 novembre 2008

Rivivere cammuffati


Inizierei il disco dalla traccia nr.9 O Ein Dear: è lei il punto da cui si sviluppa l’intero Cheer Gone. Dopo, proseguire fino alla fine e poi ri-iniziare dalla numero 1.

Euros Childs è del Galles, il vecchio Galles. Antica terra celtica del sud, essa rivive cammuffata nei cuori dei nuovi cittadini britannici. Non è questo un disco traditional, quanto semmai una pacata passeggiata fra intimi pensieri su vita e natura (quanto segna l’animo quella frase “Even flowers in bloom one day must die”). La voce incaricata di rivoltarli verso l’esterno è una bassa monodia a tratti pure troppo lamentevole. L’architettura sonora, più che costruire cattedrali e monumenti, si ferma alle piccole capanne: chitarra acustica, una leggera percussione giusto per tenere il tempo, a tratti un soffice organo e se proprio vogliamo esagerare un’armonica a bocca. L’evento più accattivante è una Sing Song Song con tanto di banjo e vivace violino. Fedele alla propria terra, non può poi che assecondare il ritmo delle stagioni: prima traccia è Autum Leaves, seguita da Summer Days. E’ come se vivere al di fuori dello stato naturale fosse un’inutile forzatura. L’aggettivo che lo descrive appieno è tranquillo: nella musica, nel cantato, nell’atteggiamento. E’ capace di accompagnare una piacevole gita solitaria ai bordi della città senza forzarla. Nulla di più.
Altri episodi esterni a questo album (Y Mwnci Drwg, Billy The Seagull ) mantengono lo stesso sguardo sul mondo, pur se francamente molto strambo: andate a guardarli - ridetene anche un pò - e poi tornate a tuffarvi fra campi di grano e fiori che appassiranno.

Giocare la propria carta


Notizie scarse, sito ufficiale in costruzione, solo un oscuro album e curiose sessioni acustiche sulla pagina youtube della Cargo. E' Laetitia Sherif, cantante francese che ha cominciato a cantare testi di Yeats accompagnandosi da sola alla chitarra finchè non ha incontrato Oliver Mellano e Gaël Desbois (entrambi componenti del gruppo Mobiil. Andateli ad ascoltare, sono ancor più interessanti), coi quali nel 2004 ha pubblicato Codification - testi propri e un inglese impeccabile.

Non ha niente a che vedere con le tipiche cantautrici d’Oltralpe piene di sospiri e dolci arpeggi: qui ci si muove navigando in quel nuovo miscuglio che è la commistione di indie chitarroso ed elettronica gentile. Questo secondo disco gioca 12 carte che scommettono sul mondo del tutto particolare di Laetitia. Non per niente nel booklet troverete fogli sparsi (pericolo di perderli: molto alto), uno per ogni brano, sul retro l’immagine rivisitata di carte da gioco in versione “la morte è fra di noi”.

Games Over si presenta come disco buio. Sarà la copertina, o i suoni insieme eterei e scarnificati. E’ energetico, poi ipnotico, a tratti catartico. Si passa il tempo molto piacevolmente, rimbalzando fra riff semplici e incalzanti. Ci sono molte sfaccettature, echi di note à la Amiina fino al ritmo dei Ting Tings; un cantato ripetitivo e a tratti svaccato contrapposto a momenti intimi; passaggi delicati e testi arrabbiati.
Il mondo di Laetitia.

Let the beat control you


Il disco che non ha titolo, se non la grande O che racchiude il nome della band.
Ma il problema è un altro, ovvero l’anima del commercio. Pot Kettle Black e Alligator Skin sono le colpevoli, tracce trascinanti che istigano a comprare della birra o ad ammirare concupiscente l’auto più nuova e scattante. Possibile? Il dubbio rimane e se non lo sapessi non mi accorgerei neanche della più grande attrattiva di questa band: la percussionista tiene il tempo ballando il tip tap. E infatti appaiono pezzi come Dust Me Off e Falling Without Knowing, molto eterei e meno caciaroni ma dotati di un trasporto che non manca di colpire nei sensi. Finisce inevitabilmente che vuoi anche tu la pedana su cui si dimena ammaliante la tap dancer Jamie. Fermarti sui colorati video delle loro performance. Andare avanti a canticchiare “Pot kettle! pot kettle black! / Talk that! talk that smack!”.
L’ultimo atto si consuma con Beat Control. Guardate il video girato autonomamente dai bambini della Grade Four International Class: semplice nelle coreografie come il brano è semplice nel ritmo e nell’amalgama. E si finisce così, canticchiando allegri e pensando: “Sì. Lascia che il ritmo ti controlli”.

venerdì 3 ottobre 2008

Il mio diamante più splendente


Questa è la serata delle voci ammalianti. Quelle che con la sola loro presenza sono capaci di creare mondi.
Tutto ha inizio con Clare & the Reasons, “ragioni” di sicuro ben motivate da gorgheggi che conducono ai fumosi schermi americani del secondo dopoguerra; ma qui gli intenti sono altri, e la Nostra riesce a cinguettare con trasporto per almeno 5 minuti il solo nome “Obama”: non puoi che sorridere e prendere parte al gioco.
E mentre hai ancora nelle orecchie il suono della sua voce vellutata, ecco che il palco viene addobbato di bandierine a righe bianche e nere, i musicisti (sempre gli stessi) rivestiti di più baloccanti abiti da scena, e infine entra lei, Shara, la Donna Con la Acca Di Più, come poi sospirerà a luci spente.
Lo spettacolo, perchè di spettacolo si deve parlare, è qualcosa a metà fra il numero di magia di un circo e un reading di poesie. Ad un certo punto Shara nomina George MacDonald e il suo libro per bambini (At the Back of the North Wind), una storia - dice - per alcuni aspetti simile all’Alice di Lewis Carroll; qui si apre un mondo. Non puoi che convincerti del fatto che tutta la sua verve, il suo immaginario e soprattutto la sua musica siano votati ad un gioco con ciò che è surreale, romantico, giocoso, deformato, incantato…Una realtà alternativa, come il Paese delle Meraviglie di Alice.
Lo vedi negli abiti. Sono in stile anni Venti, ma un pò più neri e misteriosi…Il viso è dipinto di stelle e luna argentate, magiche. Come se si trattasse di un gotico passato da rivivere attraverso una di quelle palle di vetro innevate. Anche la sua musica è così, ricorda un cantato che esce rotto e incantevole da un vecchio grammofono, contrapposto però a basi sintetiche leggermente beat. Ed eccola infatti che si muove con disinvoltura fra campionamenti, marimbula, chitarre, distorsioni, mentre gli altri 3 musicisti che l’accompagnano - viola, violino e contrabbasso - giocano fra le possibilità dei loro strumenti pizzicandoli, strusciandoli, graffiandoli. Il polistrumentista Olivier Marchon tira poi fuori carillon e sega, e sembra di essere al concerto delle Amiina. Shara, eterea e dolce, si trasforma di volta in volta in grintosa rocker, bambina prestigiatrice (pensate, ha un coniglio nel cappello!), poetessa. Chiacchiera col poco pubblico presente - dopotutto è come aver incontrato la propria amica al pub sotto casa - e incita a supportarla con più energia. E come fare? Quando i suoni cominciano a dipanarsi, sei proiettato in un’altra dimensione. Solo a fine brano scroscia l’applauso, ti risvegli, e le vuoi dimostrare tutto il tuo apprezzamento. Il boato è tanto più disorientante dopo l’ultima mirabilia: ombre cinesi improvvisate dietro ad un semplice lenzuolo diventano due simpatici burattini innamorati: volano via assieme ad uccelli colorati, leggeri come la musica che ci trasporta all’uscita.



E' meglio essere


Caro Signor Finn, mi chiedo perchè hai deciso di fare proprio questo tipo di disco. Non me ne volere, sai, solo che è da un po’ che mi scervello su come comprenderti. Mi è piaciuta tanto la tua prima canzone, Better To Be, con quel suo ritmo di basso saturato che si riversa sull’innocua chitarra acustica. Fa venire voglia di tenere il tempo con qualsiasi oggetto capiti sottomano. La seconda traccia Second Chance, poi, è proprio ciò che il titolo suggerisce: ti do una seconda possibilità di stuzzicarmi con una divertente batteria simil-garageband e un cantato etereo che non si può negare, ti ritrovi a dover ripetere…”Remeber me / honestly I don’t / remember who you are”.
Però. Già lì cominci ad essere un pò troppo ripetitivo. Guarda: io ti darei anche il beneficio del dubbio, ma quando la tua voce si sforma su molteplici doppie voci, quando la chitarra acustica di sottofondo e la batteria sincopata si protraggono per altre 12 tracce, non trovo molti motivi per ascoltarti appieno. Sai, assomigli molto a cose già conosciute come Frames, Veils, Flaming Lips. Poi mi sovviene che sei figlio di Neil Finn, frontman dei Crowded House, e in effetti vedo che qualcosina deriva anche da lì, probabilmente perchè da qualche tempo suoni insieme alla band di tuo padre. Ecco, cerca di non essere uguale a nessun altro.
Questo è il tuo primo album solista e non è poi così male. E’ legato alla terra e genuino. Hai deciso di registrarlo interamente in analogico perchè fosse ancora un pò ruvido. E la ritmica è sempre trascinante. A qualcuno piacerai di sicuro. Il dubbio sul perchè di questo album però mi rimane, ma facciamo che continuerò ad interrogarti. Forse è questo a cui miravi? Un ascolto che duri nel tempo?

Cantiere


La complessità della trama musicale non può essere resa coi mezzi usuali.
Milano, ultima data del tour estivo: un palco affollato, sette musicisti fra cui due tastiere e un polistrumentista, le basi campionate di cui non si riesce a fare a meno. La musica dei Baustelle è poliedrica e sfaccettata. E’ da ascoltare. Le voci si distinguono perfettamente ed è lì che si catalizza l’attenzione. Sulla figura vagamente nerdiana - ma si dice cantautoriale - di Francesco Bianconi e sul fascino della morbidezza di Rachele Bastreghi. Vieni rapito dalle parole, quei versi che sanno farsi ascoltare e quelle immagini di varia umanità su cui riflettere senza sosta…
Il pubblico è indefinibile, capita che qualcuno non capisca testi un pò più corposi di un pezzo da grande stadio (”L’aereoplano? E non c’è l’elicottero?”). Bianconi si lancia anche in battute umoristiche su banane e sposalizi ma non non ci può proprio far niente, è sempre così: non si scompone più di tanto, si nasconde dietro ad enormi occhiali da impiegato anni Settanta e lascia spazio alla collega quando è il caso.
Iniziano con Antropophagus all’insegna del nuovo album, quasi non credessero che tutta la gente che riempie il vasto Palasharp sia là per loro al di là del successo di Amen. Spiegano i vecchi brani: “questa canzone è nata per rimorchiare, e poi invece è diventata l’inno dei fans più filosofici”. E pensi che se dovessi essere rimorchiata così, bè: “L’unica cosa che ho / è la bellezza del mondo / La sola cosa che so / è che vorrei conservarla”… vai a rimanere impassibile.
L’atmosfera si fa sempre più paradossale, la tensione sale e parole potenti devono combattere con un ritmo trascinante che viene dal sottosuolo musicale. Raggiungiamo livelli di parossismo, perchè quando tutti quanti si alzano a ballare e saltano è proprio su La guerra è finita mentre si canta “Vivere non è possibile / Lasciò un biglietto inutile / prima di respirare il gas”. E forse si può scusare chi ha ballato pure su Il corvo Joe. Forse.
Ma quello che aspettavamo era il gran finale con Baudelaire. La coda elettronica si espande ben al di là della versione su disco e, mentre si riempie di suono e ritmo, sfocia nel rumorismo di Bianconi che, collegato al sintetizzatore, rimane solo sul palco come novello vate. Ricordandolo mentre poco prima allargava le braccia sorridendo poeticamente al suo grande scrittore. Amicizie intellettuali che sfidano la morte.
Sarebbe perfetto finire qua, ma un bis è d’uopo, pur se nella Milano di un lunedì che deve tornare a casa presto. Non ce ne vogliano i cari autori, ma la metropolitana si appresta a chiudere e domani ci si alza alle 7. Forse avremmo potuto prestare più attenzione al secondo Momento-Malinconia che apre con Un romantico a Milano e chiude ipso verbo su Andarsene così. E’ la fine del tour, ripete Bianconi, e si è un pò più malinconici. Ma è da tempo che a gruppetti ci si allontana sempre più dal palazzetto, ed è un peccato non rendere omaggio alla fila dei musicisti ormai schierati a bordo palco.
Luci accese, manifesti staccati, in corsa verso la macchina.



Testare dischi


Mi diverto a testare i dischi su certe mie conoscenze: c’è quella che adora tutto quello che la fa muovere e ballare. C’è il suo compare che si infervora per chitarre movimentate e un pò funky, batteria sperimentale. Poi c’è quello che odia i colori, l’elettronica minimale, tutto ciò che strizza l’occhio al pubblico british-indie.

Ebbene, è bello vedere come ognuno di loro, gusti musicali molto diversi, reagisce alla radio che da ben 5 mesi sta mandando in onda quella canzone, Great DJ.
Mi sono affezionata alla canzone, e incredibilmente pure agli altri due estratti dell’album. Non faccio tempo a scoprire That’s not my name che mi ritrovo a canticchiare Shut up and let me go. E ascoltandoli insieme agli amici che li apprezzano (tanto per cronaca, tutti tranne l’ultimo), i tre si ritrovano nella nostra ideale compilation del 2008.
E va bene: 3 su 3 è un buon motivo per comprare l’album. Parigi. Fnac e Virgin (per non far torto a nessuno) fanno prezzi concorrenziali. Lo dico solo perchè mi sono tenuta le ingombranti etichette che ricoprivano la copertina. Giusto: visto che la grafica si rifà al collage e alla casualità, la confusione dei messaggi c’azzecca un bel pò. “De loin le meilleur groupe que l’Angleterre a produit depuis des années - NME”. “Inclus le tire Shut up and let me go, musique de la nouvelle pub i-pod”. “Includes That’s not my name and Great dj“. Babilonia. Però sono convinta. Mi piace farmi condizionare dal packaging.
Dei testi nel libretto non si capisce nulla. Il disco scorre, aspetto con ansia i miei gioiellini mentre il resto non lascia troppi segni. Mi rimane impressa Traffic Light, già nel titolo paradossalmente lontana dai ritmi incalzanti di una nuda chitarra, la giocosa tastierina, il testo ripetuto ipnoticamente.
We started nothing dura sui 6 minuti, e non ti stanchi di ripetere all’infinito “I started nothing I wish I didn’t” con una vocetta scanzonata che corre su due ritmici accordi in croce. Non serve molto per creare musiche intelligenti. Ma saper mettere in ordine i suoni, avere quelle piccole idee che illuminano il brano, per questo sì, ci vuole una sacrosanta furberia.