mercoledì 8 ottobre 2008

Una musica ritrovata?





Ricordo la vecchia Elisa, quella che sorprendeva muovendosi nei cunicoli di un Labirinto nuovo, misterioso, affascinante.
La ricordo perchè è da tanto tempo che non la ascolto. Ad esempio: c'era Mr. Want; Shadow Zone; Cure Me. Pipes & Flowers non è mai stato un album perfetto e imprescindibile, ma nel suo insieme era una bella gemma musicale. E poi c'era The Marriage, che credo rimarrà la mia preferita sempre e comunque.
Le ascolto dal vivo. E' un percorso a ritroso nel tempo, a ciò che mi piaceva. Le Hexe, dopotutto, sono state una cover band di Elisa, anche nelle cover (vedasino What's Up, Wuthering Heights che avremmo dovuto fare, e Calling You che eravamo a Finale a berci il 120% di tutto e secondo me vale eccome). Sono esaltata dallo spettacolo, dalle sensazioni del ritrovamento.
Si ripensa a 7 anni fa all'Alcatraz (e c'era il nucleopiùnucleo delle Hexe, e vedi che ritornano sempre?). Ora il Forum è quasi pieno, ci sono le trombette da stadio (ma un pò di - non dico gusto - intelligenza??), lei è concentrata a cantare, cambiarsi d'abito e non morire nella tuta di latex. Per fortuna che ci sono i ballerini e la nazionale di ritmica e le luci e lo schermo e le parole di Jim Morrison (che danno sempre un certo tono).
Io sto lì a chiedermi se ci è o ci fa. Prima ci era di sicuro. Oggi chissà. Forse si cambia, e ha un senso cantare Broken, Stay, Gli Ostacoli del Cuore, e altre cose di cui ho perso il conto.
Sono i pezzi su cui si finisce tutto. La mia esaltazione temporanea si affievolisce. I crediti sono fatti a luci accesissime. Per carità, ben vengano, però dopo luci suoni colori ombre e delitti non ci stava proprio. E poi ci sono i bis annunciati che poi bis non sono e non si capisce perchè li si chiami così e devo dire che mi hanno anche stufato che fanno metà concerto illudendoti della fine. Insomma, siamo onesti dai. Oh.
E quindi si finisce con quei pezzi poco significativi. Anche se la gente si alza in piedi e inneggia a Elisa come se fosse una diva, mentre io e Vero siamo sciallatissime nei nostri posti al primo anello pagati da secondo, coi piedi sui sedili di fronte, con occhio fisso sul palco e a metà pure nel backstage, tanto che vediamo sempre prima quando arrivano gli omini coi palloncini in testa e le tutine argentate e il ventilatore raffreddante. E insomma, sono soddisfazioni.
Oggi mi trovo qui e mi chiedo che ne è dei dischi che ascoltavo. Pipes & Flowers, Asile's World, Then Comes The Sun, Lotus (con riserve). Mi ricordo che ieri sera su It Is What It Is io e la mia socia abbiamo avuto la pelle d'oca. Spero che riguardando il video rinascano le stesse emozioni.
Stasera me lo godrò tra le pareti domestiche, pensando. Ascoltando. Dormendo.





this is the marriage of
silence and love
here is the temple where
i come to learn
here are the eternal little
things that i always loved
here sometimes i meet the man
who can see what i see
live what i dream
and be the way he seems
(Elisa @ Dutchforum, Assago - 7/10/2008)

venerdì 3 ottobre 2008

Il mio diamante più splendente


Questa è la serata delle voci ammalianti. Quelle che con la sola loro presenza sono capaci di creare mondi.
Tutto ha inizio con Clare & the Reasons, “ragioni” di sicuro ben motivate da gorgheggi che conducono ai fumosi schermi americani del secondo dopoguerra; ma qui gli intenti sono altri, e la Nostra riesce a cinguettare con trasporto per almeno 5 minuti il solo nome “Obama”: non puoi che sorridere e prendere parte al gioco.
E mentre hai ancora nelle orecchie il suono della sua voce vellutata, ecco che il palco viene addobbato di bandierine a righe bianche e nere, i musicisti (sempre gli stessi) rivestiti di più baloccanti abiti da scena, e infine entra lei, Shara, la Donna Con la Acca Di Più, come poi sospirerà a luci spente.
Lo spettacolo, perchè di spettacolo si deve parlare, è qualcosa a metà fra il numero di magia di un circo e un reading di poesie. Ad un certo punto Shara nomina George MacDonald e il suo libro per bambini (At the Back of the North Wind), una storia - dice - per alcuni aspetti simile all’Alice di Lewis Carroll; qui si apre un mondo. Non puoi che convincerti del fatto che tutta la sua verve, il suo immaginario e soprattutto la sua musica siano votati ad un gioco con ciò che è surreale, romantico, giocoso, deformato, incantato…Una realtà alternativa, come il Paese delle Meraviglie di Alice.
Lo vedi negli abiti. Sono in stile anni Venti, ma un pò più neri e misteriosi…Il viso è dipinto di stelle e luna argentate, magiche. Come se si trattasse di un gotico passato da rivivere attraverso una di quelle palle di vetro innevate. Anche la sua musica è così, ricorda un cantato che esce rotto e incantevole da un vecchio grammofono, contrapposto però a basi sintetiche leggermente beat. Ed eccola infatti che si muove con disinvoltura fra campionamenti, marimbula, chitarre, distorsioni, mentre gli altri 3 musicisti che l’accompagnano - viola, violino e contrabbasso - giocano fra le possibilità dei loro strumenti pizzicandoli, strusciandoli, graffiandoli. Il polistrumentista Olivier Marchon tira poi fuori carillon e sega, e sembra di essere al concerto delle Amiina. Shara, eterea e dolce, si trasforma di volta in volta in grintosa rocker, bambina prestigiatrice (pensate, ha un coniglio nel cappello!), poetessa. Chiacchiera col poco pubblico presente - dopotutto è come aver incontrato la propria amica al pub sotto casa - e incita a supportarla con più energia. E come fare? Quando i suoni cominciano a dipanarsi, sei proiettato in un’altra dimensione. Solo a fine brano scroscia l’applauso, ti risvegli, e le vuoi dimostrare tutto il tuo apprezzamento. Il boato è tanto più disorientante dopo l’ultima mirabilia: ombre cinesi improvvisate dietro ad un semplice lenzuolo diventano due simpatici burattini innamorati: volano via assieme ad uccelli colorati, leggeri come la musica che ci trasporta all’uscita.



E' meglio essere


Caro Signor Finn, mi chiedo perchè hai deciso di fare proprio questo tipo di disco. Non me ne volere, sai, solo che è da un po’ che mi scervello su come comprenderti. Mi è piaciuta tanto la tua prima canzone, Better To Be, con quel suo ritmo di basso saturato che si riversa sull’innocua chitarra acustica. Fa venire voglia di tenere il tempo con qualsiasi oggetto capiti sottomano. La seconda traccia Second Chance, poi, è proprio ciò che il titolo suggerisce: ti do una seconda possibilità di stuzzicarmi con una divertente batteria simil-garageband e un cantato etereo che non si può negare, ti ritrovi a dover ripetere…”Remeber me / honestly I don’t / remember who you are”.
Però. Già lì cominci ad essere un pò troppo ripetitivo. Guarda: io ti darei anche il beneficio del dubbio, ma quando la tua voce si sforma su molteplici doppie voci, quando la chitarra acustica di sottofondo e la batteria sincopata si protraggono per altre 12 tracce, non trovo molti motivi per ascoltarti appieno. Sai, assomigli molto a cose già conosciute come Frames, Veils, Flaming Lips. Poi mi sovviene che sei figlio di Neil Finn, frontman dei Crowded House, e in effetti vedo che qualcosina deriva anche da lì, probabilmente perchè da qualche tempo suoni insieme alla band di tuo padre. Ecco, cerca di non essere uguale a nessun altro.
Questo è il tuo primo album solista e non è poi così male. E’ legato alla terra e genuino. Hai deciso di registrarlo interamente in analogico perchè fosse ancora un pò ruvido. E la ritmica è sempre trascinante. A qualcuno piacerai di sicuro. Il dubbio sul perchè di questo album però mi rimane, ma facciamo che continuerò ad interrogarti. Forse è questo a cui miravi? Un ascolto che duri nel tempo?

Cantiere


La complessità della trama musicale non può essere resa coi mezzi usuali.
Milano, ultima data del tour estivo: un palco affollato, sette musicisti fra cui due tastiere e un polistrumentista, le basi campionate di cui non si riesce a fare a meno. La musica dei Baustelle è poliedrica e sfaccettata. E’ da ascoltare. Le voci si distinguono perfettamente ed è lì che si catalizza l’attenzione. Sulla figura vagamente nerdiana - ma si dice cantautoriale - di Francesco Bianconi e sul fascino della morbidezza di Rachele Bastreghi. Vieni rapito dalle parole, quei versi che sanno farsi ascoltare e quelle immagini di varia umanità su cui riflettere senza sosta…
Il pubblico è indefinibile, capita che qualcuno non capisca testi un pò più corposi di un pezzo da grande stadio (”L’aereoplano? E non c’è l’elicottero?”). Bianconi si lancia anche in battute umoristiche su banane e sposalizi ma non non ci può proprio far niente, è sempre così: non si scompone più di tanto, si nasconde dietro ad enormi occhiali da impiegato anni Settanta e lascia spazio alla collega quando è il caso.
Iniziano con Antropophagus all’insegna del nuovo album, quasi non credessero che tutta la gente che riempie il vasto Palasharp sia là per loro al di là del successo di Amen. Spiegano i vecchi brani: “questa canzone è nata per rimorchiare, e poi invece è diventata l’inno dei fans più filosofici”. E pensi che se dovessi essere rimorchiata così, bè: “L’unica cosa che ho / è la bellezza del mondo / La sola cosa che so / è che vorrei conservarla”… vai a rimanere impassibile.
L’atmosfera si fa sempre più paradossale, la tensione sale e parole potenti devono combattere con un ritmo trascinante che viene dal sottosuolo musicale. Raggiungiamo livelli di parossismo, perchè quando tutti quanti si alzano a ballare e saltano è proprio su La guerra è finita mentre si canta “Vivere non è possibile / Lasciò un biglietto inutile / prima di respirare il gas”. E forse si può scusare chi ha ballato pure su Il corvo Joe. Forse.
Ma quello che aspettavamo era il gran finale con Baudelaire. La coda elettronica si espande ben al di là della versione su disco e, mentre si riempie di suono e ritmo, sfocia nel rumorismo di Bianconi che, collegato al sintetizzatore, rimane solo sul palco come novello vate. Ricordandolo mentre poco prima allargava le braccia sorridendo poeticamente al suo grande scrittore. Amicizie intellettuali che sfidano la morte.
Sarebbe perfetto finire qua, ma un bis è d’uopo, pur se nella Milano di un lunedì che deve tornare a casa presto. Non ce ne vogliano i cari autori, ma la metropolitana si appresta a chiudere e domani ci si alza alle 7. Forse avremmo potuto prestare più attenzione al secondo Momento-Malinconia che apre con Un romantico a Milano e chiude ipso verbo su Andarsene così. E’ la fine del tour, ripete Bianconi, e si è un pò più malinconici. Ma è da tempo che a gruppetti ci si allontana sempre più dal palazzetto, ed è un peccato non rendere omaggio alla fila dei musicisti ormai schierati a bordo palco.
Luci accese, manifesti staccati, in corsa verso la macchina.



Testare dischi


Mi diverto a testare i dischi su certe mie conoscenze: c’è quella che adora tutto quello che la fa muovere e ballare. C’è il suo compare che si infervora per chitarre movimentate e un pò funky, batteria sperimentale. Poi c’è quello che odia i colori, l’elettronica minimale, tutto ciò che strizza l’occhio al pubblico british-indie.

Ebbene, è bello vedere come ognuno di loro, gusti musicali molto diversi, reagisce alla radio che da ben 5 mesi sta mandando in onda quella canzone, Great DJ.
Mi sono affezionata alla canzone, e incredibilmente pure agli altri due estratti dell’album. Non faccio tempo a scoprire That’s not my name che mi ritrovo a canticchiare Shut up and let me go. E ascoltandoli insieme agli amici che li apprezzano (tanto per cronaca, tutti tranne l’ultimo), i tre si ritrovano nella nostra ideale compilation del 2008.
E va bene: 3 su 3 è un buon motivo per comprare l’album. Parigi. Fnac e Virgin (per non far torto a nessuno) fanno prezzi concorrenziali. Lo dico solo perchè mi sono tenuta le ingombranti etichette che ricoprivano la copertina. Giusto: visto che la grafica si rifà al collage e alla casualità, la confusione dei messaggi c’azzecca un bel pò. “De loin le meilleur groupe que l’Angleterre a produit depuis des années - NME”. “Inclus le tire Shut up and let me go, musique de la nouvelle pub i-pod”. “Includes That’s not my name and Great dj“. Babilonia. Però sono convinta. Mi piace farmi condizionare dal packaging.
Dei testi nel libretto non si capisce nulla. Il disco scorre, aspetto con ansia i miei gioiellini mentre il resto non lascia troppi segni. Mi rimane impressa Traffic Light, già nel titolo paradossalmente lontana dai ritmi incalzanti di una nuda chitarra, la giocosa tastierina, il testo ripetuto ipnoticamente.
We started nothing dura sui 6 minuti, e non ti stanchi di ripetere all’infinito “I started nothing I wish I didn’t” con una vocetta scanzonata che corre su due ritmici accordi in croce. Non serve molto per creare musiche intelligenti. Ma saper mettere in ordine i suoni, avere quelle piccole idee che illuminano il brano, per questo sì, ci vuole una sacrosanta furberia.